giovedì 1 ottobre 2009

Dimensione morale


Mi sono accorto che una questione di cui parlo spesso quando si parla di narrazione - alla conferenza al Salone del Libro di Torino l'avrò tirata fuori dieci volte - è quella della dimensione morale dei personaggi.

E' una delle cose che fanno la differenza. Prendete i Simpson e i Griffin. Homer Simpson per quanto possa essere stupido, egoista, addirittura fastidioso, ha sempre un senso morale che gli permette di riscattarsi sempre dai disastri che provoca. Posto davanti a una scelta, seppure con qualche esitazione sceglierà sempre la sua famiglia, o comunque finirà per fare la cosa giusta, o rimediare quando ha fatto la cosa sbagliata. O, almeno, verrà punito quando si sarà comportato male. Nei Griffin invece questo aspetto è per lo più assente, e se c'è diciamo che è nascosto molto bene. Peter Griffin non solo è stupido, egoista, eccetera, ma è decisamente antipatico. Sembra non avere nessun rispetto nemmeno per la sua stessa moglie. Quello che fa non è "trainato" da una dimensione morale che - seppur attraverso vie impervie - lo porterà a una conclusione che soddisfi il bisogno di giustizia insito nello spettatore. C'è gente che preferisce i Griffin, ma non è un caso se sono molti di più quelli che adorano i Simpson.

Il discorso vale per qualsiasi altro ambito. Un Paperone che taglieggia i parenti, un Paperino che si occupa unicamente di svaligiare il salvadanaio dei nipotini, risultano fastidiosi, se non sono accompagnati da una personale dimensione morale. Paperone può trattar male Paperino, essere sarcastico, ma si sente quando sotto c'è di più che il semplice scherno fine a se stesso. Se Paperone ridicolizza il nipote perché in realtà è preoccupato che egli smetta di fare lo spiantato e cominci ad accumulare ricchezze per diventare finalmente qualcuno - secondo un suo personale metro di giudizio - lo sentiamo. Non c'è alcun dubbio. I personaggi che usiamo per le nostre storie non sono dei semplici giocattolini da scatenare l'uno contro l'altro per il nostro personale divertimento di autori, ma sono la proiezione dei sentimenti e delle aspirazioni dei nostri lettori, pertanto vanno rispettati. Anche maltrattati, se necessario, ma con affetto. Sembra un paradosso ma non lo è.

In alcune storie di Barks - sempre lì si va a parare! - Paperino funge addirittura da voce della coscienza nei confronti dello zione. Quella voce, è la dimensione morale con cui Paperone si trova perennemente in conflitto. Una persona in possesso di tanta ricchezza potrebbe permettersi qualsiasi cosa. Paperone invece ha un - seppur labile - senso della misura. Se esagera poi si vergogna, soprattutto davanti allo sdegno dei nipoti. Verso i nipotini poi ha un riguardo tutto particolare. Questa è la dimensione morale. E fa la differenza, non c'è dubbio.

Mi è capitato di assistere a storie (fumetti, cinema, narrativa) in cui gli autori si divertivano a fare i cinici, i pulp, svuotando il contenuto di ogni dimensione morale. Senza contare però che nel vero pulp cui tutti fanno riferimento, quello di Tarantino, la dimensione morale è fortissima. Ed è questo che fa la differenza tra i film di Tarantino e i veri b-movie degli anni '70 cui solitamente il regista fa riferimento. Di pulp, i suoi film hanno l'aspetto e la forma esteriore, ma dentro i personaggi sono molto profondi, e spinti da una dimensione morale molto forte. Magari un po' particolare, personale, distorta, ma sempre di quello si parla. Come lo vogliamo chiamare il motivo che spinge Mr. White a vegliare su Mr. Orange che si è preso una pallottola durante la fuga insieme, se non dimensione morale? E che dire di Butch che dopo aver truffato un boss di Los Angeles non può partire finché non ha recuperato l'orologio di suo padre?

Proprio questo è ciò che ha reso i personaggi di Tarantino tanto interessanti: con lui abbiamo scoperto che anche i malavitosi possono avere una quotidianità, una morale, una "deontologia professionale". A questo proposito consiglio senz'altro la lettura di "Come una bestia feroce" di Edward Bunker.

Io sono tutt'altro che un moralista o un buonista. Chi mi conosce lo sa, ma direi che non ne ho nemmeno l'aspetto... Però c'è una grossa differenza tra bontà e buonismo, morale e moralismo... Essere moralisti significa essere intransigenti su un insieme di schemi identificati come morale comune, per nascondere un'incapacità di avere una morale propria. Quindi, in un certo senso, morale e moralismo sono gli esatti opposti l'uno dell'altro. Questo in una storia si sente moltissimo.

13 commenti:

Anonimo ha detto...

L'accezione che tu dai al termine "pulp" è impropria. Anzi, alquanto sbagliata. Pulp non è sinonimo né di cinico né di amorale. Era semplicemente la maniera - del tutto neutra - con cui venivano descritti i "giornaletti" americani degli anni 50.
Quanto poi all'amoralità dei personaggi di finzione - non solo Disney - molto ci sarebbe da dire. Certamente, la mancanza di quella che tu definisci "dimensione morale" non è né un pregio narrativo né un difetto. Ma se prendi per esempio i romanzi di Massimo Carlotto scoprirai che l'assoluta mancanza di orizzonte etico dei suoi personaggi dà a quelle storie uno spessore che altri libri di altri scrittori che a tutti i costi vogliono sottolineare che il crimine non paga e che la lealtà è la meglio cosa non riusciranno mai a raggiungere, neppure sotto Prozac.
Un saluto.

Fausto

Giorgio Salati ha detto...

Sì Fausto, conosco l'origine del termine pulp, mutuato dalla carta economica fatta con la "polpa" del legno con cui venivano stampate le riviste di detective stories, thriller, noir e malavitose in genere...

Qui però l'ho volutamente usato nella sua accezione più recente, se vogliamo banalizzata e stereotipata... Dopo l'avvento di Tarantino con la sua reinterpretazione del Pulp altri si sono messi a "fare i pulp", equivocando e appunto stereotipando, facendo diventare il termine "pulp" un sinonimo di "cinico".

Fausto ha detto...

Wikipedia è la croce e la delizia di tutti noi.
Il tuo discorso sulla dimensione morale, tuttavia, continua a sfuggirmi. Per esempio, non ricordo di aver letto storie in cui zio Paperone esorti in una qualsiasi maniera Paperino affinché (cito) “smetta di fare lo spiantato e cominci ad accumulare ricchezze per diventare finalmente qualcuno.”
Ho la sensazione che chiamare in causa la “dimensione morale” sia un’arma pericolosa dal punto di vista della narrazione. Le ragioni sono tante, mi limito a esporne due: anzitutto, l’eventualità di trovarsi a scrivere storie “a tesi”, in cui la fine è nota, senza quindi soverchie sorprese per il lettore.
Il secondo rischio, più preoccupante, è quello di scrivere storie che non fanno mai ridere. Ecco, alla fine io (da lettore) preferisco leggere una storia in cui i personaggi diventano un po’ cattivi, scorretti e - nei limiti del possibile - amorali piuttosto una in cui si racconti che tanto alla fine il bene trionferà e il male verrà sconfitto e ci sarà giustizia per tutti. Perfino nelle storie Disney questo non accade sempre.
Sulle differenze tra Simpson e Griffin potremmo discutere fino a Pasqua, ma basti pensare a un personaggio come Gastone: c’è qualcuno di più amorale di questo odioso gagà imbrillantinato che non ha mai lavorato in vita sua, che campa di colpi di culo e che perdipiù insidia la fidanzata del cugino (la quale spesso e volentieri dà l’impressione di starci)? Eppure, alla fine Gastone vince più o meno sempre. Vince perfino quando perde. Che cosa dovremmo pensare? Che non c’è giustizia nel mondo?
Chiudo dicendo che - ribadito una volta ancora che nessun autore può sentenziare che quel tale personaggio è così e non cosà, o che quella specifica dinamica tra personaggi deve essere svolta in una maniera anziché l’altra - il racconto Disney, come tutti i grandi racconti, è il racconto della vita. La vita a volte è giusta e a volte ingiusta; a volte c’è giustizia e altre volte la giustizia sfugge; a volte vince chi se lo meritava, altre volte vince chi passava di lì per caso. Quello che conta è che, alla fine del racconto, chi è caduto si sia rialzato e abbia trovato la forza per riprendere a camminare.
Lungi dall’essere una lezioncina, la mia. Si sta solo discutendo.
Ciao.

Fausto

Giorgio Salati ha detto...

Sì, alle volte forse non è abbastanza esplicito che anche le mie non vogliono essere lezioncine, per carità! Più che altro considerazioni del tutto personali sul mio modo di vedere certe questioni... Non sono certo un Autore di quelli che possono dare lezioni, d'altra parte dopo 6 anni che scrivo fumetti ho sviluppato un mio modo di vedere la sceneggiatura.

Capisco bene il tuo punto di vista anche se appunto non lo condivido del tutto. Per come la vedo io Fausto, gli esempi che fai tu di storie con una morale "preimpostata" sono esempi di moralismo più che di morale... Quando parlo di dimensione morale, non mi riferisco a una morale finale in cui tutto deve andare secondo il mio punto di vista, ma parlo della personale dimensione morale di ogni personaggio, che è differente per ognuno,e quello che può essere morale per Gambadilegno non lo è affatto per Topolino. Per me una storia non dev'essere guidata da una morale al di sopra di tutto e tutti, ma dalle personalità dei diversi personaggi (scusate il bisticcio), il che implica anche le loro diverse dimensioni morali. Comunque sono sempre i personaggi a guidare la storia.

Sono d'accordo che è divertente far diventare i personaggi un po' bastardi. Però al di là delle gag contingenti, personalmente come lettore sento il bisogno che poi la storia "vada a parare da qualche parte" da un punto di vista morale/emotivo, che insomma faccia anche crescere il personaggio (o meglio, faccia crescere me che mi identifico nel personaggio). Questo è ovviamente un punto di vista personale mio di lettore che si rispecchia poi anche in quello di autore.

E' per questo che - come ben sai - mi piacciono tanto i conflitti interiori: perché mi piacciono gli ostacoli dal punto di vista morale, che mettano alla prova un personaggio e lo facciano magari crescere, o vedere una faccenda da un punto di vista nuovo. Ho anche scritto un nuovo post a proposito del conflitto interiore che ho programmato per lunedì!

Quanto a storie in cui Paperone spinge Paperino a cominciare a pensare alla ricchezza invece che rimanere il solito spiantato ne ho lette diverse in passato, la prima che mi viene in mente è la "Disfida dei dollari" di Barks.

Albo Abourt ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Albo Abourt ha detto...

Beh, prima di tutto complimenti per il bell'intervento.

Parlo da assoluto inesperto, da mero spettatore o letto ed una cosa a cui penso spesso leggendo o guardando le storie.

Gia tutta l'epopea di paperone di Don Rosa è grandiosa in questo senso.
Lui ha comuqnue il principio che lo portà ad essere cinico e bastardo, al punto tale da abbandonare la famiglia, e cacciarla per inseguire il suo scopo, fin quando non riscopre l'affetto familiare e si rinvigorisce grazie a paperino.

Però è anche vero che ci sono personaggi che devono mantenere il loro grado di cattiveria e basta.
Per esempio non sopporto quando si deve dare umanità a un personaggio come Gastone, che è stato creato principalmente per essere la nemesi di Paperino, il buono.
E lo stesso paperino, è uno dei peronsaggi piu controversi della storia, anche perchè a volte (sempre comunque in un contesto blando) si comporta da vero malvagio, certe volte da stupido (quasi alla paperoga) , certe volte da adulto serio e responsabile.

La verità è che secondo me ogni perosnaggio - che comunque E' senza dubbio la chiave di ogni storia - dovrebbe seguire una certa analisi psicologica transazionale.
Quindi possiamo trasformare questa "dimensione morale" a cui ti riferisci come una cosa piu grande.

Se tu immagini ogni persona con una parte "normativa" una parte "Bamina" e una parte "adulta", si puo costruire la dimensione morale.

La parte normativa dice al personaggio gli suggerisce in che direzione si deve muovere (se è un buono dalla parte del bene, se è un cattivo dalla parte del male) la parte adulta deve sostenere se è giusto quello che fa, e la parte bambina dovrebbe dargli quel principio di "aspirazione" (nel caso di paperone, essere il papero piu ricco del mondo).

Scusate l'intervento, ma la discussione mi interessava.

Alberto Abate.

Unknown ha detto...

Caro Giorgio,
effettivamente durante la conferenza alla Fiera del Libro di Torino, hai parlato spesso della questione morale dei personaggi, e in quel caso, lo sai bene, non eravamo concordi (fermo restando che il tuo apporto alla conferenza è stato straordinario, lo sai).

Concordo con te, in questo caso, sia per il discorso in generale (sarà che te l'ho sentito fare molte volte?), sia quando dici che ciascun autore si approccia in maniera diversa. Questo discorso mi ha riportato alla mente le parole del grande Bruno Sarda: “mi limito a fare è non premiare alla fine della storia chi si è compor tato scorrettamente o far fare una cosa antipatica a un personaggio che amo. Paperone, ad esempio, mi diverto a dipingerlo come un taccagno, ma mai gli ho fatto fare delle scorrettezze e, se le fa, alla fine della storia viene comunque punito”.
Personalmente trovo molto giusto ciò che Bruno dice... Moralità e non moralismo.

Se poi parliamo di Martina, però, penso che il discorso sia ancora più da ampliare, perché lui riusciva a dipingere con durezza smisurata alcuni personaggi (vedi Paperone), pur senza dimenticare l'aspetto morale (anche se so che non sei d'accordo, su questa considerazione storica)...

Giorgio Salati ha detto...

Ringrazio tutti per l'apporto alla discussione, è interessante notare come ognuno abbia un punto di vista personale sulla faccenda.

Vorrei puntualizzare però una cosa. Quello che considero dimensione morale non è semplice "stare dalla parte del bene" o "del male". Non mi piace categorizzare troppo, noi occidentali siamo abituati a un punto di vista su ciò che è "civile" o "morale" e ciò che non lo è che è in realtà molto opinabile, come Terzani sosteneva.

Quello che interessa a me è più che altro il personale modo di vedere la moralità di ogni personaggio.

Fausto ha detto...

È un intervento un po’ lungo e ho dovuto dividerlo in due parti. Scusate.
Ho sempre un certo disagio a partecipare a una discussione teorica, anche perché dal teorico all’astratto il passo è brevissimo. E quando una discussione diventa astratta se ne perdono i contorni, si confondono e si invertono i concetti. Insomma, non si sa più di che cosa si stava discutendo. Non so nemmeno perché mi ci sono imbarcato in questa discussione. Ad ogni modo, anche per rispetto del nostro ospite, mi permetto di chiudere il cerchio del mio personale ragionamento per poi andare a fare la spesa.
Nel tuo ultimo intervento sostieni che: «Quello che considero dimensione morale non è semplice “stare dalla parte del bene” o “del male”.»
Io avevo capito un’altra cosa. Avevo capito che tu preferissi Homer a Peter giacché il primo (ti cito) «posto davanti a una scelta sceglierà la sua famiglia, finirà per fare la cosa giusta, rimediare quando ha fatto la cosa sbagliata. O, almeno, verrà punito quando si sarà comportato male.»
Mentre l’altro (cito) «non è trainato da una dimensione morale che lo porterà a una conclusione che soddisfi il bisogno di giustizia insito nello spettatore.»
Quindi, Homer agisce per il “bene” e quando non lo fa verrà punito. Peter pensa alla panza sua e la fa franca. Tu preferisci il primo al secondo. Questa è una rispettabilissima visione di tipo etico della narrazione. Non c’è niente di male ad ammetterlo.
Ma è proprio su questo punto che il tuo ragionamento (senza offesa) fa difetto, specie spostandolo nel mondo Disney. Paperi e Topi non hanno una sola “dimensione morale” proprio perché sono personaggi “autentici” e non figurine unidimensionali. Tu stesso (e anch’io e sostanzialmente tutti gli esseri umani, esclusi probabilmente il ministro Bondi e l’onorevole Gasparri) non possediamo un solo codice attraverso cui filtrare e comprendere la realtà, per poi agire e reagire. Spesso le nostre azioni risultano inspiegabili a noi stessi.
La convinzione che i personaggi di finzione - in questo caso, quelli Disney - agiscano secondo un solo codice (Paperino è così, Paperoga è cosà, Paperone fa questo e Topolino fa quell’altro) ha generato, specie nei decenni passati, un’infinità di storie tutte uguali, in cui andamento e conclusione erano noti già dalla seconda tavola.

Fausto ha detto...

Seconda parte.
Certo, per un autore è più semplice far agire un personaggio secondo parametri noti. Per il lettore, un po’ meno. Infatti, dopo un po’ si rompe le scatole e comincia a leggere altro.
Per un autore è difficile pensare a una storia in cui Topolino non si comporti da vero amico nei confronti di Pippo o in cui Paperone menta alla famiglia per proprio tornaconto. Non dico che lo dovrebbe fare, ma che potrebbe. Giacché anche lui è “umano”.
Anche qui il discorso si farebbe lungo. Vorrei solo dire (e chiudo davvero, scusandomi per la verbosità e ringraziando Giorgio per l’ospitalità) che se è vero, come sosteneva Freak Antoni, che il professionismo ha rovinato l’Italia, è vero anche che la teorizzazione dei metodi narrativi (tecniche di scrittura, “schemi” e compagnia cantante) stanno uccidendo il racconto. Non solo quello Disney. Il racconto della vita. Basta rileggersi Orwell per capire dove sta il problema.
L’autore non vuole più stimolare il lettore/spettatore, ma sorprenderlo a sprazzi per poi condurlo dove ritiene sia giusto. Ossia, là dove lo “schema narrativo” dice che fosse giusto arrivare. Non si vuole più soddisfare il lettore, ma l’editor che visionerà la nostra storia. Questo non è più scrivere, ma, come diceva Truman Capote a proposito di Kerouac “battere a macchina”.
Nello scorso fine settimana ho incontrato un ragazzo appassionato lettore Disney. Mi ha chiesto che cosa si deve fare per diventare un autore di fumetto. Dopo avergli precisato che non faccio parte della categoria e che i consigli non mi piace né darne né riceverne, gli ho dato poche indicazioni: leggi molti libri; fumetti, lo stretto necessario per non cadere nella tentazione di emulare i “maestri”; prima di studiare a fondo la struttura narrativa di “Lost” guardati e riguardati “Twin Peaks”. E, soprattutto, sta’ lontano dalle scuole di fumetto.
Un saluto.

Fausto

Giorgio Salati ha detto...

Be', intervento lungo ma pieno di spunti.

Innanzitutto direi che la dimensione morale per come la intendo io non sta nell'unica direzione delle proprie azioni verso un "bene" generico. Non è nel "finale" che percepisco la dimensione morale. E' proprio nell'insieme di pulsioni, dubbi interiori, prove da passare, errori, passi falsi, anche piccole cattiverie che salta fuori una dimensione morale. Non per niente parlo di "dimensione", cioè un "insieme" di pulsioni-emozioni-pensieri del personaggio. Forse dal post la cosa non era abbastanza chiara perché ho semplificato fin troppo.

Per quanto riguarda invece il "professionismo" Fausto sai già che la pensiamo in maniera diversa, e su questo temo che ognuno resterà della propria idea (anche se confrontarsi sull'argomento è sempre utile per ridimensionare le proprie posizioni magari a volte troppo drastiche). Io - come ho già espresso su questo blog - sono convinto che "tecnica" e "istinto" siano due componenti inscindibili in una sceneggiatura. Che non si può fare una storia solo o quasi d'istinto senza tecnica, e che allo stesso tempo una storia solo di tecnica sia totalmente priva di anima e quindi di interesse per il lettore. Io li vedo come 50%/50%, poi ognuno dà le percentuali che preferisce.

E quanto alle scuole di fumetto sono convinto che ce ne siano alcune ottime, ma che siano solo una piccolissima percentuale del totale.

Giangidoe ha detto...

Mi permetto di abbassare un pò lo standard accademico dei commenti, cogliendo una singola suggestione della parte iniziale del tuo post sul binomio Griffin-Simpson.
Io ad esempio sono affezionato ai personaggi ed alla satira dei Simpson, ed è innegabile che l'anzianità ed il successo mondiale maturato dalla famiglia gialla è ormai incontrastabile. Ma a livello di stile, di citazioni, di surrealismo a tratti addirittura imbarazzante (quasi superfluo citare le innumerevoli "fantasie" di Peter) e di totale assenza di morale - nel senso di insegnamento o di buonismo del caso - i Griffin per me sono stati una boccata d'aria, una vera e propria catarsi pop. Ed anche il superamento dei confini del politicamente corretto, sebbene a volte discutibile, è senza dubbio (oltre che esilarante) anche un importante strumento per spostare un pò più in là le frontiere della serialità televisiva in generale.
Certo, potremmo dire "nel bene e nel male", volendo banalizzare un pò.
Ma, giusto per spiegare il mio punto di vista: è ovvio che fra il citazionismo colto ed la scrittura geniale di un capolavoro Pixar come Wall-E ed un seppur riuscitissimo mix di satira e scorrettezza come il film di South Park, preferirò sempre il pacchetto di Lasseter.

Giorgio Salati ha detto...

No, nessun livello accademico, i commenti di tutti sono benaccetti (a parte gli insulti, ovvio!).

Capisco bene quello che dici Giangidoe, tuttavia per me non è così. Ci sono alcune gag dei Griffin che trovo veramente esilaranti, al di là del buon gusto o meno. Ce ne sono alcune invece che si sforzano in tutti i modi di oltrepassare il cattivo gusto e non mi fanno ridere per nulla, non tanto per il cattivo gusto ma proprio perché la gag è così sforzata da risultarmi noiosa. E il problema è proprio questo, le puntate dei Griffin spesso sono solo un'accozzaglia di gag, in cui la trama è inconsistente. Discorso diverso per i Simpson, dove la trama è comunque la cosa fondamentale. Non per niente di McFarlane è molto meglio "American Dad" dove la trama ha un peso maggiore rispetto alle singole gag.

Anche South Park, nonostante spesso sia pesante, lo trovo un prodotto molto migliore dei Griffin proprio perché la trama e la caratterizzazione dei personaggi sono fatti bene: gli autori sanno bene in che direzione stanno andando, anche quando si lanciano in digressioni grottesche.

E anche il discorso del citazionismo, pop, postmoderno o come lo si voglia chiamare (pulp in certi casi). Se è funzionale alla storia ben venga, alle volte mi diverto un sacco con le citazioni. Ma quando sono fini a se stesse e soffocano la storia, allora mi annoio in fretta.

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